“Verde” è la parola chiave nell’immaginario di Signorini: verde come la giovinezza, verde come la speranza
«Verde era il colore con cui suo padre era vestito quando lavorava per l’esercito, verde il colore del nulla quando aveva calpestato una mina, verdi gli occhi di quella donna che l’aveva rimesso in sesto all’ospedale, e che poi lui avrebbe sposato. Verde anche il colore del bosco». Verde in inglese si dice “green”. Green come “Green Talbot”, il nome del protagonista in “La Sinfonia del tempo breve”, ultimo romanzo di Mattia Signorini. Ma “verde” davvero significa “green”, come vorrebbe suggerirci un qualsiasi dizionario? Lascio questa domanda un attimo in sospeso e vi presento il protagonista della nostra storia, Mattia Signorini. Trentuno anni, di Rovigo, con due romanzi, “Lontano da ogni cosa” (2007) e “La sinfonia del tempo breve” (2009), ha conquistato prima l’Italia e poi i paesi stranieri, per non parlare dell’interesse dei produttori cinematografici per le sue storie. Quando gli ho chiesto come ci si sente ad essere ambasciatore della letteratura italiana nel mondo, Mattia Signorini ha risposto: «Non mi sento affatto un ambasciatore della letteratura. Io sono uno che racconta delle storie, e ho la fortuna di essere tradotto in altri paesi». Mattia si distingue appunto con questo suo secondo lavoro. Si tratta di una favola, il cui protagonista è Green Talbot, che vive nel paesino “Tranquillity” dove tutto è come dovrebbe essere e l’eccezione alla regola non esiste, e dove lui è l’unico a pensare fuori dagli schemi. Quando lascia il suo villaggio, lo seguiamo in un’odissea che lo vede imbattersi in una miriade di personaggi, alcuni tratti dalla realtà, altri fantastici, quasi da cartone animato alla Roger Rabbit. Semplice e limpido, dimostra una perseveranza quasi innata. In un mondo di avversità impara a stare a galla. La sua vera forza è essere una “spugna” dei desideri e delle emozioni altrui, dimostrando una disponibilità enorme nei confronti di chiunque incontri. L’empatia, rappresentata dal protagonista e dallo stesso processo di lettura, è lo strumento meglio impiegato dall’autore. Green è simbolo di una speranza che illumina i tempi bui e le ombre che si levano all’inizio di questo secolo. Indagando, scopro che il libro e Green hanno un’origine piuttosto complessa nell’ideologia dell’autore. «Ho la sensazione che l’individualismo abbia raggiunto delle vette alte. – dice Mattia – Non c’è più semplice ricerca del benessere, ma un arraffare per prendere qualsiasi cosa a tutti i costi. Penso che per questo la nostra società sia molto infelice. I beni spirituali – il conoscere le persone, lo stare con le persone – si stanno sgretolando». Ma come è arrivato ad essere così conosciuto ad appena trent’anni? Tutto è iniziato con “Lontano da ogni cosa”. Aprendo quel suo libro era già chiaro che non si trattava semplicemente di un ragazzo con il dono della scrittura, ma di un vero narratore. La trama di quel romanzo, già etichettato da diverse testate giornalistiche come “generazionale”, traccia le vicende di tre ragazzi che si perdono e si ritrovano, legati sempre da un profondo vincolo di amicizia, tema ricorrente in tutta la scrittura di Signorini. Ma tornando al significato delle parole “green” e “verde”, “green” è un colore che nella conoscenza anglosassone ha connotazioni che riguardano la fertilità e la natura. Invece in Italia, il “verde” ha una fortissima valenza: la speranza. L’ho saputo dopo anni, vivendo in Italia. È stato nel Natale del 2009. Ero andata dal parrucchiere, che aveva allestito un meraviglioso albero di Natale, addobbato in verde-oro. Quando gli ho fatto i miei complimenti, lui mi ha risposto: «Con la crisi, oro è abbondanza, verde speranza». E in quell’attimo ho scoperto per la prima volta la parola “verde”. Troppo spesso la parola “crisi” tinge di nero il nostro linguaggio, i nostri media e la nostra arte. Libri come quelli di Mattia Signorini testimoniano la voglia di oggi di sentire una voce con una vena brillante di verde. I suoi romanzi hanno avuto un enorme successo in Francia, Germania, Israele, Sudamerica e in Spagna, dove perfino Elena Ramirez, direttore editoriale di Seix-Barral (che in Spagna pubblica Roth, DeLillo e Franzen) lo ha battezzato “il nuovo Calvino”. Anche l’Italia ha bisogno di avere figure in cui sperare, in tutti i campi, dopo un 2011 piuttosto tumultuoso, e non solo in politica. Nel 2010, Signorini è entrato nella terzina del Premio Letterario Tropea, insieme a Alicia Jimenez-Bartlett e Gad Lerner. E chi è salito sul palco? Un incredulo Mattia, che nemmeno aveva preparato un discorso, per quanto fosse convinto che uno degli altri due avrebbe portato a casa il titolo. Una vittoria con i fiocchi. Descrivendo la propria scrittura, Calvino disse nelle sue “Lezioni americane”: «[…] la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio». La descrizione di Calvino calza a pennello anche per la prosa priva di pesantezza di Mattia. Nella prima metà di quest’anno molto si è detto, in particolare in tv, sulla scia del 150esimo d’Italia riguardo alla nostra cultura in affanno a causa dei pesanti tagli. Tuttavia, le eccellenze nel nostro paese sono molte. Mi chiedo a volte se non sia il talento che manca, ma piuttosto la curiosità e la voglia di scoprire gli altri. Signorini ci conduce in un mondo, quello interiore, dipinto con mille colori. Basta leggere, e il futuro si tinge di verde speranza.
Qual è stata la tua esperienza a New York?
Avevo 17 anni ed è stata l’esperienza di un ragazzo che veniva da una provincia. Mi sentivo spaesato.
Non riuscivo a definire i contorni della città, non sapevo come muovermi. Mi ricordo che mi hanno fatto una foto, poi mi sono girato e ho chiesto, “Cos’è questo posto?” Erano le Torri Gemelle. Un grattacielo senza fine.
Quando ci ripenso, mi ritorna sempre quella forte emozione – perché da ragazzino, questa visione rappresentava l’Uomo che riesce a toccare più in alto del cielo. Era il 1998.
Fu così che Green Talbot fece il suo primo incontro con il mondo di fuori. Era un mondo che lo affascinava così tanto che non riusciva a chiudere gli occhi. Poi un moscerino gli arrivò dritto nella pupilla e sentì un dolore così forte che dovette strizzare le palpebre, e non riuscì a vedere più niente. Imparò ben presto che ogni meraviglia si porta sulle spalle qualche inconveniente.
Molte mattine dopo vide l’America. Una distesa di terra che si spalmava al posto dell’orizzonte. Era sul ponte, con il primo sole, svegliato dai marinai che si rimettevano al lavoro. Restò a guardarla a lungo, senza voltarsi. Sembrava non avvicinarsi mai. Passavano le ore e l’orizzonte di terra stava là, come se si spostasse continuamente all’indietro.
“Il posto migliore dove stare se non ne hai visto nessun altro”. Così gliel’aveva raccontato suo padre, l’America. Green Talbot non aveva ancora cinque anni all’epoca. Ne aveva anche sentito parlare, di sfuggita, da due clienti che si erano fermati alla locanda di Palomar Amirante. “Un posto pieno di poveracci”. “Già” disse l’altro. “Ma se non sei stato là, è come se non sei stato da nessuna parte”.
Alicia Eastman