Filadelfia, sei il mio destino.
Emigrai da Roma a Filadelfia quando ero bambino, ma ci volle un pò di tempo prima che realizzassi che avevo lasciato il bel paese. La South Philadelphia della mia infanzia era piena di immigrati italiani e di italo-americani di prima generazione che parlavano la lingua di casa. Le nonne sedevano sui portici, pelando aglio e spettegolando; gli uomini discutevano animatamente di calcio e l’odore di sugo di pomodoro che cuoceva a fuoco lento si diffondeva dalle finestre aperte. Ricordo di quando ogni mattina andavo a piedi alla Termini Brothers Bakery insieme a mio padre, dove il gentile Signor Termini aveva sempre una sfogliatella ad attendermi. Era tutto così familiare e genuino da sembrare un autentico quartiere italiano.
Così come fecero altre famiglie italiane, successivamente ci trasferimmo da quel quartiere all’altro lato del ponte, in South Jersey. Era meno rievocativo del vecchio continente, ma grazie ai miei genitori mi fu possibile trascorrere le estati in Italia, mantenendo la mia conoscenza della lingua e della cultura di casa. Passavamo i nostri giorni in Italia viaggiando tra Toscana, Lazio e Campania. Mio nonno aveva un vigneto e un uliveto vicini al Parco Nazionale del Cilento, a sud della costiera amalfitana. Fu viaggiando verso altre regioni, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, che mi resi conto che non c’è nulla di paragonabile al cibo italiano. La cucina ed i vini della penisola cambiano sensibilmente da regione a regione, e perfino da città a città all’interno della stessa regione. Il mio precoce interesse per queste differenze regionali avrebbe segnato successivamente il mio destino.
Sin da giovane ho lavorato di sera nei ristoranti di mio padre. Con l’età, la mia inclinazione per la matematica emerse e mi portò lontano dalle sale da pranzo. Conseguii una laurea in finanza presso la New York University seguita da un MBA. Una carriera nel mondo della finanza si apriva dinanzi a me, ma mi tirai indietro di fronte a tale prospettiva. Mi appariva noiosa, perchè non era la mia passione. Perciò, tornai alla mia impresa familiare e, insieme al mio brillante padre, feci crescere l’azienda e la mia bellissima famiglia. La vita era bella.
Lunedì, 6 Aprile 2009. Mi sedetti sul mio divano quella mattina e guardai la distruzione che avveniva a L’Aquila, la capitale d’Abruzzo. Un terremoto demolì la città, e mentre guardavo le immagini di detriti e macerie, la devastazione risuonava dentro di me. Ero nel bel mezzo del mio personale terremoto: mia moglie, con la quale ero stato sposato da dieci anni, mi aveva appena annunciato di non voler più essere sposata. Il nostro matrimonio cedeva sotto il peso di quelle parole, ed un anno dopo ero ufficialmente divorziato.
Con la preghiera ed il supporto della famiglia e della chiesa, concentrai i miei sforzi nel riscoprire me stesso con un nuovo progetto: un libro che esplorasse i vari stili della cucina italiana. Feci una lista di quelle che consideravo essere le cinquanta città e paesi dello stivale più importanti a livello culinario, e di mese in mese partivo per fare esperienza e studiarne quante più riuscivo a inserirne nei miei viaggi. Il mio itinerario per ogni spedizione includeva incontri con chef (sia rinomati che più modesti), viticoltori, storici e le vere custodi delle tecniche artigianali: le nonne.
Dal principio di questo viaggio, sentii un senso di dovere nei confronti degli italo-americani, di dimostrare che le loro radici sono saldamente legate alle regioni dei loro predecessori. Ognuna delle venti regioni vanta un arazzo culturale intrecciato di dialetti, forme d’arte, ricette e vini. Dalle influenze arabe, greche e nord africane in Sicilia, alle influenze etrusche e francesi in Toscana, dalle influenze austro-ungariche e slovene in Friuli e Alto Adige, la ricchezza dell’esperienza italiana cambia in ogni città.
Durante il mio secondo anno di ricerca, ebbi un imprevisto nel mio programma. Commisi un errore nel prenotare il mio biglietto di ritorno, e mi ritrovai con un giorno in più fuori programma. Dall’appartamento di famiglia a Roma, mi diressi ad est per circa un’ora, a L’Aquila, senza avere appuntamenti da rispettare.
Piazza Duomo. Alle porte del centro storico, fui scioccato nel vedere due militari italiani con la mitraglia in spalla. Alcuni amici romani mi avevano appena detto che L’Aquila era quasi tornata alla normalità dopo terremoto di due anni prima (una dimostrazione di quanto gli italiani possano non essere in contatto nonostante vengano da regioni confinanti). In realtà, la città era chiusa sotto legge marziale. Parcheggiai la mia macchina a cento metri di distanza ed entrai a L’Aquila per un vicolo secondario. Questa città, una volta bellissima e raffinata, era stata messa in ginocchio da ciò che sembravano gli effetti di un implacabile bombardamento. Il terremoto aveva lasciato innumerevoli immagini di vita interrotta: un complesso residenziale di appartamenti squarciato in due a rivelare camere da letto ancora arredate, coperte buttate sui mattoni, uno spazzolino da denti sul lavandino di un bagno in attesa di essere nuovamente usato. Pensai e ripensai a Pompei, un’altra città italiana devastata dalla natura. In Piazza Duomo, nel centro della piazza, vidi un edificio danneggiato che sembrava essere stato una volta un Caffè bello ed elegante. Avvicinandomi, vidi un’insegna polverosa fuori dal palazzo danneggiato con su scritto “Gran Caffè L’Aquila”. Mi colpì.
San Pietro Celestino. Camminai per ore attraverso la città, fino a giungere all’unico bar aperto. Entrai e chiesi se vi era un posto in zona dove potessi provare un pasto tipico aquilano. Fui indirizzato verso un locale ai margini della città: La Grotta di Aligi, di uno chef locale di nome Enrico Ferrauto. Lui e sua madre condivisero con me il loro considerevole sapere sulla cucina locale e, prima che ebbi finito la mia cena, avevo già invitato Enrico a venire a trovarmi a Philadelphia. Sazio, camminai fino alla famosa chiesa di San Pietro Celestino a Collemaggio. Col senno di poi, penso che fu questo il momento in cui realizzai che L’Aquila era una città segnata nel mio destino. La mia parrocchia a Cherry Hill, appena fuori Philadelphia, era originariamente conosciuta come San Pietro Celestino. Mi parve fortuito che questa era la prima chiesa del luogo in cui ero andato la maggior parte della mia vita ed il luogo in cui di recente avevo pregato per ritrovare una giusta direzione nella mia vita.
All’esterno c’era un chiosco di deliziose bambole artigianali locali. Andai a comprarne una per ciascuna delle mie figlie, quando un uomo mi fermò e mi chiese da che parte dell’Italia ero in visita. Gli dissi che venivo da Roma, ma che vivevo a Philadelphia. Mi disse: “Il mondo si è dimenticato de L’Aquila, gli italiani si sono dimenticati de L’Aquila. Anche gli Abruzzesi si sono dimenticati de L’Aquila.” Poi continuò: “Vieni qui domani e ti faccio vedere tutto”. Fui colpito dal modo diretto in cui mi parlò, considerando che ci eravamo appena conosciuti. Essendo giunto a Collemaggio in modo del tutto casuale, sentii che dovevo scoprire di più e gli dissi che ne sarei stato onorato. Ritardai il mio volo di un giorno e tornai il mattino seguente per vedere cosa aveva da mostrarmi lo sconosciuto. Mi portò in luoghi nei quali a nessuno era permesso l’accesso e mi mostrò distruzione oltre ogni immaginazione, incluse le rovine della sua casa distrutta. Quando lo lasciai mi disse: ”Devi far sì che la gente venga a conoscenza de L’Aquila. Siamo stati abbandonati.”
Stefano e Michele. Per il mio successivo viaggio in Italia, tornare a L’Aquila era la mia priorità. Il mese precedente, lo chef Enrico mi fece visita a Philadelphia e mi disse che era amico di Stefano Biasini, uno dei proprietari del Gran Caffè L’Aquila. Il caffè era famoso per gli eccellenti caffè e per il gelato per cui dissi ad Enrico che volevo incontrarlo. Enrico fece gli onori e mi presentò Stefano e il suo socio Michele Morelli. Da quando il loro Caffè era andato distrutto, avevano inaugurato un’altra sede nella periferia della città. Nonostante si trattasse di una copia dell’originale, fui colpito nel provare il caffè ed il gelato migliori della mia vita, inclusi quelli dei tanto celebrati caffè di Torino e Palermo.
Noi tre diventammo presto amici, uniti dalla nostra passione per la gastronomia. Stefano, che era stato formato dal precedente campione di gelato d’Italia, Sergio Colalucci, condivise con me come faceva il gelato. Il suo processo è meticolosamente scientifico, ma al tempo stesso innegabilmente sofisticato. Michele aveva uguale passione nel tostare un caffè eccezionale. Aveva rappresentato l’Italia al summit del G8 per la cultura del caffè, ed aveva preparato caffè espresso per i capi di stato. Aveva anche vinto il riconoscimento più importante del Gambero Rosso per la torrefazione del caffè. In breve, era uno dei più stimati torrefattori di caffè d’Italia.
Insieme facemmo un giro tra le rovine della loro sede originaria. Mentre camminavamo, vedevo e sentivo il dolore della loro perdita. Con le nostre vite agitate in modi diversi, lasciammo l’edificio danneggiato e ci dirigemmo di nuovo all’aria aperta. Una grande insegna nella piazza principale diceva “LA RICOSTRUIREMO!”. Invitai i miei nuovi amici a farmi visita a Philadelphia dopo un paio di settimane, momento in cui avremmo cominciato a ricostruire noi stessi.
Il Campione di Gelato. Ci divertimmo molto a visitare Philadelphia e New York insieme. Uno dei momenti più memorabili fu guardare Michele rimproverare la barista di un coffee shop nazionale per aver chiamato “una tazza di acqua e latte bruciati un cappuccino”. Intervenni per ricordargli che non era colpa della giovane barista e mi scusai per lui. Lei, come la maggior parte degli americani, non sa che un vero cappuccino è fatto da due once di caffè, due once di latte e due once di schiuma. Questa ricetta è rigidamente seguita nei 100.000+ caffè che costellano la penisola italiana. Stefano era allo stesso modo, se non meno verbalmente, deluso dal gelato. Era già da qualche anno che mi battevo alla ricerca di autenticità nel cibo e nel vino italiani. In Stefano e Michele trovai amici con la stessa passione.
Il mese successivo volai di nuovo a L’Aquila, e dopo una meravigliosa cena di arrosticini preparata dalla madre di Michele, cominciammo a discutere dell’idea di portare il Caffè che aveva in precedenza vinto il titolo di “Caffè dell’anno” a Philadelphia. Credevamo fosse un progetto del destino, e in quanto tale, decidemmo di portarlo avanti SOLO se Stefano fosse diventato il Campione di Gelato d’Italia nel campionato seguente. Mi recai a Rimini a Gennaio del 2013 per il confronto finale in stile “Iron Chef” tra gelatieri che rappresentavano uno spaccato delle venti regioni d’Italia. Al terzo dei sei round, Stefano e un Siciliano favorito si distinsero dagli altri. Il resto della competizione fu un confronto tra due maestri. Stefano lasciò a bocca aperta i giudici con i suoi gelati strutturalmente perfetti e con una gastronomia sbalorditiva. Lo osservavo mentre pianificava la matematica della struttura e consistenza dei sapori prima su carta, e poi nella realtà. Era capace di assaporare il gusto nella sua mente, prima di realizzarlo. Quella sera trionfò, e mentre tutti festeggiavamo, il nostro sguardo si spostò dall’Italia a Philadelphia.
Stefano e Michele cominciarono a volare a Philadelphia una volta al mese, per la nostra iniziativa. Portai il nostro business plan a mio padre, Mario Longo, al quale chiesi consiglio. Lui è uno dei restaurateur più rispettati e di successo dell’area tri-state. Quando ci disse che gli piaceva molto la nostra idea e che voleva investire nel nostro sogno, fu un bellissimo momento che mi dà emozione ancora oggi. La sua collaborazione ci fornisce mezzo secolo di esperienza nel campo della ristorazione a livello internazionale, ed è un dono averlo come guida.
L’idea passeggera di dar vita a questo progetto a New York fu messa da parte alla scoperta che Philadelphia ospita il più alto numero di Abruzzesi fuori dall’Abruzzo. Stefano e Michele erano contenti di sentire il loro dialetto parlato per le vie della città. Da italiano venuto a Philadelphia da bambino, è un evidente poetico destino quello di poter restituire il dono dell’autentica cultura italiana alla città che amo.
1716 Chestnut. Trovammo una sede su due livelli nel prestigioso quartiere di Rittenhouse che ricordava il Gran Caffè de L’Aquila, su 1716 Chestnut. Assumemmo uno studio di progettazione italiano per fornire un’estetica italiana autentica e moderna. Tutti i dettagli furono ideati e realizzati in Italia. Optammo per uno stile di bar più alto, nel quale gli avventori sono in piedi piuttosto che seduti, una caratteristica dei bar italiani. Il Caffè è pieno di marmi italiani, legno e ferro. Sia il laboratorio del gelato che quello del caffè sono attrezzati con macchinari italiani, realizzati su misura per funzionare negli Stati Uniti. Entrambi i laboratori sono avvolti dal vetro, così che i clienti possano guardare Stefano e Michele creare i loro prodotti artigianali. L’intero ristorante è arrivato via cargo in diciotto container. Un vero caffè Made in Italy per Philadelphia.
Oltre ad un menù fisso, offriamo un tour dell’Italia di 52 settimane, e durante ogni settimana i nostri chef preparano specialità fatte a mano di una città italiana basate su ricette che ho collezionato. Stefano si è posto come obiettivo quello di rivoluzionare l’idea di gelato. Oltre al suo tanto acclamato gelato dolce, i nostri clienti sono stati sorpresi dalla sua idea rivoluzionaria di accostare il gelato gastronomico a piatti autentici italiani, dagli antipasti, alla pasta, alla portata principale. Il nostro piatto più venduto è la carbonara con gelato alla pancetta. Michele ha mostrato a Philadelphia che sapore ha un vero cappuccino. Io ho messo insieme una lista di vini italiani con vini a rotazione da tutte le venti regioni italiane. Ci siamo associati con la Italy-America Society per offrire lezioni di lingua e cultura italiana.
Dal giorno in cui abbiamo iniziato ci sono voluti quasi tre anni per realizzare questo sogno. Ho mantenuto la promessa che feci all’amico che incontrai a L’Aquila: farò sì che il mondo non si dimentichi de L’Aquila. Gran Caffè L’Aquila è un simbolo dell’autenticità della gastronomia e della cultura italiane. Dal gelato del Campione di Gelato d’Italia, al caffè premiato di Michele, ai miei tour gastronomici settimanali delle città italiane, ai vini dalle venti regioni d’Italia e alla scuola di lingua e cultura. In sei mesi Stefano ha vinto il titolo di Best of Philly per il gelato, Michele ha stupito la città con il suo caffè ed io ho vinto il riconoscimento Wine Spectator Award of Excellence. Un flusso stabile di italiani, italo-americani e italofili riempie il locale ogni sera. Dalle rovine de L’Aquila e dalle rovine di vite interrotte ci siamo rialzati per esporre il made in Italy agli americani desiderosi di autenticità.
Philadelphia sei il nostro destino.